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Appunti Storici ed Artistici su 

Fabriano nel Medioevo

 

di Fabio Marcelli

 

 

La storia della città di Fabriano, usando questo termine nell'accezione di comunità organizzata secondo propri ordinamenti, è relativamente recente, considerato che l'insediamento si sviluppò più lentamente rispetto alle altre realtà italiane, visto che il sito attuale, incastonato in un alveo tra le colline e le montagne dell'Appennino umbro-marchigiano e quindi esposto ad ogni tipo di minaccia esterna, non consigliava certamente, nei secoli che semplicisticamente si definiscono più 'oscuri', l'abbandono degli arroccamenti sui crinali limitrofi.

 

Fabriano, Palazzo del Podestà

Solo dalla fine dell' XI secolo, infatti, si possono datare i primi massicci movimenti di discesa a valle delle genti, mentre si dovrà aspettare circa un secolo perché anche Fabriano si doti di ordinamenti autonomi, dando origine ad un Comune che, come efficacemente sintetizzato da Jean Claude Maire Viguer, nasceva da un 'patto sociale' tra i nobili feudatari dei castelli, che accettarono di svincolare la popolazione dal loro controllo e quest'ultima che, giustamente, rivendicava nuove e più ampie risorse di sviluppo, pur riconoscendo ancora ai boni homines alcuni privilegi personali.

 

La storia successiva del Comune è quindi la testimonianza di un percorso volto alla conquista di nuovi spazi produttivi e territoriali, orientato in particolare, per quanto riguarda il secondo aspetto, ad "inurbare" i vari feudatari dei castelli limitrofi in modo da contenere possibili minacce provenienti dall'esterno.

 

La metà del Duecento segna indubbiamente il punto culminante di questa prima fase dello sviluppo civico, simboleggiato nel 1253 dal trasferimento della fonte battesimale dalla vicina pieve di Attiggio, già municipio romano, alla nuova Cattedrale, nonché, ed è certamente l'emblema più fulgido di questa stagione, dalla costruzione del Palazzo del Podestà, nel 1255, al quale fece seguito, nel 1285, la fontana maggiore, detta anche "Sturinalto", esemplata dall'architetto perugino Jacopo di Grondolo, su modello di quella della città umbra.

 

Un riflesso quanto mai intrigante di questa temperie si può ammirare osservando gli affreschi dipinti sul voltone del Palazzo suddetto, realizzati probabilmente a distanza di poco tempo dalla fondazione dell'edificio, i quali, non a caso, sviluppano il tema delle alterne vicende del destino umano, con la raffigurazione allegorica della Ruota della Fortuna che campeggia accanto a due guerrieri; l'uno prostrato, implorante in ginocchio, l'altro imperante, con la spada sguainata della vittoria, un chiaro emblema delle fortune che, proprio negli anni in cui furono realizzati i dipinti, arridevano alle imprese militari del Comune.

 

Come accaduto in tutta l'Europa inoltre, un coagulo essenziale alla costruzione della civitatis, al consolidamento delle trame sociali fondate su di un rapporto più vivo ed intenso con la religiosità e le stesse istituzioni, fu l'azione pastorale urbana degli ordini mendicanti e non a caso, per testimoniare tale assunto, basterà ricordare come a partire dal 1292 si avviò la fondazione del nuovo convento dei francescani accanto alla platea magna, cuore politico della città, una scelta che in Italia, a tale data, trova pochi esempi, considerato che i conventi dei mendicanti venivano solitamente edificati ai margini del nucleo urbano, per poi essere inurbati con la stratificazione dei processi di espansione.

 

La scure implacabile del tempo, purtroppo, ha cancellato la quasi totalità di quanto nel Duecento era stato realizzato per ornare gli edifici di questa città, anche se tale perdita è stata in qualche modo compensata ai nostri occhi ignari del passato, grazie agli affreschi staccati dal convento degli agostiniani, dipinti da un artista intento a dialogare con vari momenti culturali, come il vigore espressivo unito alla cifra bizantina delle opere assisiati di Cimabue, od ancora con la cultura romana - ed in particolare i suoi riflessi abruzzesi - elementi che hanno giustamente indirizzato la critica a valutare questi dipinti tra le testimonianze più importanti della seconda metà del Duecento nelle Marche.

 

Ma è proprio osservando questi affreschi che possiamo leggere un'intensa pagina di storia della comunità agostiniana fabrianese, inserita in quelle che sono le più ampie vicende civili del territorio, un'ulteriore conferma, si potrebbe sottolineare, del valore dell'opera d'arte quale testimonianza sempre viva nei secoli, della stagione politica e sociale, ma anche delle emozioni degli uomini che ne hanno promosso la realizzazione.

 

Negli affreschi suddetti si può evidenziare la più antica testimonianza iconografica di uno tra i più noti santi pellegrini in Terrasanta ed a Compostela, ovvero Guglielmo da Malavalle, al quale gli agostiniani erano molto legati, non senza dimenticare, nella scena di SantAgostino che dona la Regola, l'allegoria della fondazione di quest'ordine (avvenuta nel 1256) e non abbiamo certo difficoltà ad immaginare, elemento che rende ancor più intriganti i dipinti in esame, come alla data in cui fu commissionata questa decorazione - intorno al 1280 circa - qualche frate del convento fabrianese dovesse avere ancora ben vive le emozioni vissute direttamente in quel grande, unico, momento della storia dei veri figli di sant'Agostino.

 

Rimandando alle schede di catalogo il doveroso approfondimento storico ed iconografico necessario per la comprensione di questi affreschi, il passo è ormai breve per giungere al Trecento, un secolo i cui anni iniziali, ed in particolare il 1305, per la popolazione e le istituzioni della Marca Anconitana, non furono certo generosi di fausti presagi.

Maestro di Sant'Agostino

S.Agostino consegna la regola agli eremiti

Fabriano, Pinacoteca Civica "B.Molajoli"

seconda metà XIII secolo

già nel convento di Sant'Agostino

Fabriano, centro storico

L'elezione di Bertrand de Got alla Cattedra di Pietro, con il titolo di Clemente V, era infatti destinata a dare inizio alla controversa stagione durata sette decenni, che si è soliti presentare come la "cattività avignonese" del papato, una disfatta che invitò le nobili famiglie filoimperiali o ghibelline, che dir si voglia, ad un lauto banchetto sui comuni marchigiani, dando libero sfogo a tutti i loro appetiti sui possedimenti pontifici, invero, fino a quel momento tutt'altro che celati.

 

Un'ulteriore disgrazia doveva poi colpire in quell'anno tutta la comunità religiosa della Regione, ovvero la morte di Nicola da Tolentino, frate agostiniano, che per merito delle sue prediche, delle irreprensibili abitudini di vita, ma soprattutto delle molte guarigioni, era indubbiamente il faro più luminoso della spiritualità in quegli anni, al quale tutti gli abitanti della Marca guardavano con indefessa devozione.

 

Anche l'operosa Fabriano non era certo immune da questo vento di burrasca politica e non a caso, nel 1308, la famiglia ghibellina dei Chiavelli iniziava a prepararsi per sferrare l'attacco alle istituzioni della città, esploso drammaticamente nel 1310, quando l'impotente governatore della Marca poteva solo condannare all'interdetto i ribelli, per aver causato "tumulto, sedizione e scandalo".

 

Durante il secondo e terzo decennio del Trecento, quando la città divenne uno dei più forti baluardi della fazione antipapale nella Marca, solo la grande comunità degli Agostiniani sembrò resistere alla tentazione di giungere a patti con il governo ghibellino e non a caso, dopo il 1328, quando si verificò il fallimento dei progetti egemonici di Ludovico il Bavaro e dell'antipapa Nicolò V, solo gli eremitani, a Fabriano, si salvarono dagli strali dell'interdetto pontificio di Giovanni XXII.

 

La produzione figurativa, quale immediato ed efficace mezzo di propaganda, dovette rivestire un ruolo di primaria importanza per ricompattare la popolazione intorno all'ortodossia papale e basti rammentare, in quest'ottica, l'imponente decorazione del Cappellone di San Nicola, nell'omonima basilica tolentinate, della quale gli studiosi hanno evidenziato il ruolo essenziale per ricompattare la popolazione della Marca intorno alla Chiesa.

 

Sulla base di quanto appena scritto dovremmo allora varcare la soglia della chiesa agostiniana di Fabriano, Santa Maria Nova, per ammirare la decorazione delle due cappelle gotiche ai lati del coro, esempio che ci offre anche il degno incipit per introdurre la riflessione sullo sviluppo della cultura figurativa locale agli inizi del Trecento.

 

Esemplate sulla Leggenda Aurea scritta di Jacopo da Varagine, le due cappelle presentano le storie della vita di Santa Maria Maddalena e di SantAgostino e proprio in quest'ultimo gruppo di scene, caratterizzate dalla larga profusione nella descrizione di miracoli ascritti al vescovo d'Ippona (un caso peculiare nell'ambito dei cicli agostiniani trecenteschi tuttora conservatisi), si può trovare la conferma di quanto sopra affermato rispetto alla valenza politica di questa decorazione.

 

Ad esempio, le azioni di Agostino contro il demonio, o in opposizione ai soprusi dell'ingiustizia terrena (Sant'Agostino libera il prigioniero dei Malaspina di Pavia) visibili sulle pareti fabrianesi, miravano chiaramente ad esaltare le virtù taumaturgiche del Santo, rispetto alla sua più consueta immagine dottorale, stimolandone la devozione popolare, ma anche incutendo nei fedeli la doverosa soggezione nei confronti di tutti coloro che si fossero macchiati di eresia politica, o comunque avessero assecondato i soprusi perpretati dai ghibellini.

 

Interessandoci poi, dopo questa utile parentesi, della cultura figurativa espressa in città agli inizi del Trecento, il nostro sguardo non potrà che orientarsi verso il  'faro' del cantiere della basilica assisiate di San Francesco. Intimamente devoto alla plasticità di Giotto si dichiara, infatti, l'ignoto autore della Maestà e santi staccata dall'Abbazia di Sant'Emiliano, realizzata intorno al secondo decennio del Trecento ed al cui intervento, con apporti di bottega spetta anche la decorazione agostiniana fabrianese.

 

Giottesca, intendendo in quest’ottica anche gli esempi dei seguaci a lui più intimi, come il Maestro della Santa Cecilia, è la definizione degli atteggiamenti e della tenera e misurata espressività dei personaggi del Maestro di Sant'Emiliano, per non tacere dell' impianto architettonico, mentre nel caso degli affreschi di Sant'Agostino l'ignoto artista non manca di prodursi in citazioni letterali, come quelle dalla Cappella della Maddalena nella Basilica Inferiore, raggiungendo brani di delicata eleganza.

 

A fronte dell'assenza quasi totale di riferimenti documentari disponibili sulle imprese pittoriche fabrianesi nella prima metà del Trecento, la nostra riflessione dovrà procedere, con tutte le incognite del caso, lungo i binari dell'analisi stilistica, cercando, per quello che ci interessa in questa sede, di individuare il senso di una comunione tra l'evoluzione politica e sociale nella realtà fabrianese e le sue manifestazioni artistiche. La linea di continuità lungo il tracciato giottesco è rappresentata, dopo il Maestro di Sant'Emiliano, dalla personalità del Maestro dell'Incoronazione di Urbino e da quella dell'intrigante Maestro di Campodonico, approssimandoci, quindi, con l'attività di quest'ultimo alla metà del Trecento.

 

Nelle opere fabrianesi, ora disperse, del Maestro dell'Incoronazione, possiamo verificare come questo pittore, muovendo da un substrato culturale di stretta derivazione assisiate, allargò i propri orizzonti anche agli apporti della schiera dei pittori giotteschi di origine riminese, variamente attivi sul versante adriatico, assorbendone la vena più intimamente espressiva, in particolare attraverso l'esempio di Pietro da Rimini e Giovanni Baronzio. Da quanto si è fin qui brevemente accennato, abbiamo tracciato l'immagine di una città impegnata in un intenso dialogo con le realtà culturali limitrofe e non poteva essere altrimenti, considerato che la 'città della carta' era indubbiamente uno dei capisaldi nell'ambito delle relazioni politiche, economiche e sociali, che legavano la costa ai grandi centri dell'entroterra umbro.

 

Ma un'altra figura nata sulla via che collegava Fabriano ad Assisi è anche il già citato Maestro di Campodonico. Artista del quale la letteratura critica ha sempre esaltato l'intenso vigore espressivo, questo pittore afferma in modo quanto mai intrigante la sua devozione all'assisiate Puccio Capanna, del quale dimostra di apprezzare l'imponente vigore plastico delle figure ed i superbi accenti luministici questi ultimi, in grado di scolpire magistralmente le forme del corpo, contribuendo anche ad inasprire le caratterizzazioni fisionomiche dei volti visibili nei dipinti del Maestro di Campodonico.

 

Il Maestro di Campodonico nella sua opera diviene uno degli interpreti più alti ed intriganti del pathos emotivo sprizzante dai fermenti della religiosità popolare, una spiritualità che all'epoca della realizzazione dei dipinti si manifestava attraverso i componimenti poetici delle laudi e trovava la sua prima, intensa, espressione visuale, nelle sacre rappresentazioni inscenate durante la Settimana Santa e delle quali la pittura è una testimonianza fedele di quanto poteva accadere in realtà durante tali occasioni.

 

Ancor più facilmente degli artisti, lungo le tortuose vie di comunicazione, si diffondevano in modo capillare le copie delle laudi nonché i racconti orali delle rappresentazioni, offrendo al pittore una fonte di interpretazione dell'evento religioso, non solo legata all'espressione dell'emotività personale, ma anche ad un 'sentire comune', in grado di valicare le aspre alture dell'Appennino.

 

E' doveroso allora, in quest'ottica, uno sguardo alla realtà delle confraternite che, per loro stessa vocazione, costituivano il punto di unione più intimo tra la popolazione e le istituzioni religiose. Associazioni di laici pronti non solo a vivere nella maniera più intensa il mistero della fede, ma ad agire concretamente nel sociale soprattutto attraverso la pubblica assistenza, queste istituzioni, naturalmente, erano anche impegnate nella committenza di opere d'arte, ed anzi, proprio nella figura di un pittore documentato negli stessi anni del Maestro di Campodonico, tale Bartoluccio da Fabriano, amministratore della più importante compagnia cittadina, quella di Santa Maria del Mercato, che raccoglieva tutti i membri della nobiltà cittadina, può essere individuato, crediamo, sulla base di vari indizi documentari, il nome del Maestro di Campodonico.

 

Questo pittore segna poi la linea di spartiacque per la comprensione della seconda stagione vissuta dalla cultura figurativa cittadina nel Trecento, ovvero, quella legata alla figura di Allegretto Nuzi e di conseguenza, all'ampia attività della sua bottega.

 

La formazione di Allegretto va letta in rapporto al substrato locale che ne plasmò la personalità ed in quest'ottica, il rapporto tra le opere giovanili del Nuzi (come la Crocifissione nella sagrestia di Santa Lucia) e quelle del Maestro di Campodonico, è stringente, fino ad assumere una dimensione che supera i confini di una generica ammirazione a posteriori, considerato che il dipinto che è probabilmente considerato come l'opera più antica conservatasi del Nuzi (una grande figura di S. Giovanni Evangelista), completamente ignorata dalla critica recente, dovette far parte della medesima campagna decorativa che vide all'opera anche il Maestro di Campodonico nell'oratorio di Santa Maria Maddalena.

 

Allegretto, anch'egli membro ed amministratore influente della stessa confraternita di Bartoluccio, nel 1346 risulta essere documentato a Firenze, fece un'esperienza fugace destinata a concludersi certamente entro un anno e mezzo circa, considerato che nel 1346 a Firenze il pittore non dovette trovare molti spazi per la sua attività, visto che proprio in quell'anno i consigli della municipalità promulgarono una legislazione molto restrittiva nei confronti dei lavoratori stranieri, ed ovviamente anche Allegretto venne inserito in quell'anno nella lista dei lavoratori soggetti alle limitazioni dei diritti politici.

 

E' altresì passata inosservata la notizia che nel 1346 un concittadino di Nuzi, tale Francesco Andreucci, occupò la carica di Vicario del podestà di Firenze e non è improbabile quindi che il pittore sia giunto nella città toscana come membro della   familias dell'Andreucci, per poi rientrare a Fabriano alla fine del mandato amministrativo del suddetto.

 

Puccio di Simone,

Sant'Antonio Abate tra i devoti

(1353)

Fabriano, Pinacoteca Civica "B.Molajoli"

Ma se il linguaggio espressivo del Nuzi è attento alle esperienze più mature della scuola fiorentina, come quelle stimolate dalla personalità di Andrea Orcagna o di Nardo di Cione, nasce allora l'esigenza di immaginare una successiva frequentazione toscana del pittore, ed in quest'ottica va valutato il rapporto tra Allegretto e Puccio di Simone, uno dei più noti allievi del Daddi.

 

Il Nuzi, a partire dal 1353, quando risulta iscritto nelle matricole dei pittori di Firenze, potrebbe aver operato nella bottega di Puccio, come ipotizzabile valutando la collaborazione d’Allegretto individuabile nel trittico licenziato nel 1354 dal pittore fiorentino per il Convento fabrianese di Sant'Antonio fuori porta Pisana (Washington, National Gallery). Al fabrianese spetta la realizzazione della figura del santo titolare del convento, in uno dei pannelli laterali.

 

Sembra infatti poco probabile che Puccio abbia potuto abbandonare la ricca Firenze per trasferirsi nella provinciale Fabriano, rimanendovi almeno sei anni, dal 1348 al 1354, come invece sostenuto negli interventi più recenti sulla pittura fabrianese del Trecento mentre, invece, Allegretto avrebbe potuto costituire un efficace tramite per far giungere da Firenze a Fabriano, oltre alla tavola suddetta, anche il Sant'Antonio Abate, dipinto da Puccio di Simone, sempre per l'omonimo convento fabrianese.

 

Un altro dato ci conferma indirettamente inoltre, come già nel 1352, il Nuzi fosse assente da Fabriano o parimenti non avesse ancora conquistato l'egemonia artistica, se per decorare la Cappella dei Chiavelli nella Chiesa di San Francesco, venne chiamato in quell'anno tale Luca d'Assisi.

 

Naturalmente, non sappiamo la durata di questa esperienza fiorentina, certo è che sui documenti fabrianesi non si trova traccia del Nuzi tra il 1350 e il 1363, mentre la ricostruzione nel 1354 della danneggiatissima edicola di via San Filippo, non è supportata da elementi di sicurezza.

 

Uno sguardo sugli eventi politici fabrianesi ci ricorda come questi anni furono particolarmente travagliati per la città, se la discesa del cardinale spagnolo Egidio Albornoz aveva opportunamente consigliato ai Chiavelli di ravvicinarsi alla Chiesa nel 1354, pur di conservare il potere, solo dal 1367, dopo altre due insurrezioni popolari contro di loro, gli stessi poterono beneficiare di una certa tranquillità interna.

 

La Descriptio Marchiae, redatta in questi anni, dimostra come la città, a fronte dell'instabilità politica, godesse comunque di un diffuso benessere dovuto ai commerci di carta, tanto da risultare seconda, per capacità contributiva alla Camera Apostolica, solo ad Ancona, Ascoli e Fermo.

 

Sul fronte urbanistico questa ricchezza stimolò ovviamente anche l'edilizia e di conseguenza la committenza artistica. Nel 1363 vengono avviati i lavori per ampliare la Cattedrale, che un documento dello stesso anno ricorda bisognosa di interventi urgenti, ed ugualmente abbiamo la certezza che dopo due anni i lavori erano ben lungi dall'essere portati a compimento, viste le forti somme di denaro impegnate dal capitolo nel 1365. Sempre in quell'anno venne completata la Chiesa domenicana di Santa Lucia Novella e già quattro anni più tardi i Chiavelli vi elessero la loro sepoltura.

 

Fabriano, Cappella di 

San Lorenzo nella 

Cattedrale di San Venanzio, 

 

 

Sarebbe superfluo sottolineare come proprio in queste chiese il Nuzi venne chiamato con la sua bottega a coronare con due grandi cicli la conclusione dei lavori, affrescando la Cappella di San Lorenzo in Cattedrale e quella di Sant'Orsola e la sagrestia in Santa Lucia.

 

La stagione della maturità nuziana è caratterizzata da una cifra stilistica dominata da figure immerse nei bagliori dell'oro steso sulle tavole, ravvivate anche dalla fantasiosa ed articolata bulinatura dei nimbi; le vesti, finemente decorate da un universo di tralci di vite, pappagalli ed altri motivi fitomorfi, ammantano, invece, corpi evanescenti, lontani da ogni minima definizione plastica. Il "trionfante decorativismo" del Nuzi, per usare le parole del Marabottini, sembra nascere da una cosciente irrealtà, ma lo sfarzo d’Allegretto sottende anche l'esaltazione della disponibilità di una ricca borghesia mercantile che, attraverso le immagini votive, poteva estasiarsi abbagliata dai riflessi aurei.

 

Uno stile che, senza volontà denigratorie, si può definire anche 'provinciale', qualora si valuti la distonia esistente con la ricerca verso la 'pittura della realtà' che, in quegli stessi anni, si stava avviando a grandi passi verso l'elegante narrativa espressa nei dipinti realizzati nella stagione del cosiddetto Gotico Internazionale, un gusto espressivo, quest'ultimo, che ha trovato in un altro fabrianese, Gentile, uno degli interpreti più alti nell'intero panorama europeo.

 

Nel 1378, intanto, Guido Chiavelli, approfittando dell'aiuto dei perugini, conquisterà defìnitivamente con la forza delle armi il dominio sulla città, ed alla Chiesa, come in altri casi analoghi, non resterà altra possibilità che legittimare la situazione di fatto, attraverso la concessione del vicariato apostolico. La statura politica di Chiavelli non differisce di molto dagli altri signori umbro-marchigiani. Si è infatti osservato come per quasi due secoli gli stessi abbiano cercato di approfittare della loro potenza per conquistare, seppur con alterne vicende, posizioni egemoniche, ed il loro successo s’inserì pienamente nel processo di riorganizzazione degli equilibri territoriali guidato, nel caso specifico, dalla regia della famiglia Visconti, duchi di Milano. I Chiavelli per garantirsi una fonte di guadagno continueranno ad esercitare la consueta attività di condottieri, ed emblematico è il caso di Chiavello, prima al servizio di Giangaleazzo Visconti e poi, alla morte di questi, nel 1402, per la Repubblica di Venezia.

 

Nella politica interna fabrianese il nuovo regime non determinò certo grossi mutamenti, ad eccezione della stabilità amministrativa. I floridi commerci di carta garantivano da oltre cinquant'anni il benessere cittadino e questa tendenza continuò anche sotto il dominio signorile senza variazioni rilevanti. Così come gli stessi non incrementarono i domini territoriali della città, nell'impossibilità di sostenere il confronto con i più potenti Varano di Camerino o Montefeltro di Urbino.

 

In sintesi, Fabriano entrò nelle maglie di una trama che fino alla fine del quarto decennio del XV secolo legò indissolubilmente queste grandi e al contempo 'fragili' Signorie, attraverso alleanze cementate sia da oculate politiche matrimoniali che dalla stessa Chiesa. Della politica culturale dei Chiavelli sappiamo ben poco, certamente la letteratura sul ruolo di questi nella committenza artistica ha ampiamente esaltato le loro doti intellettuali, vantandone gli allori letterari. Anche se molta di questa promozione, crediamo, si deve anche alla figura di Gentile, ambasciatore inconsapevole nei secoli successivi delle fortune di questa famiglia. Indubbiamente i Chiavelli potrebbero aver favorito la formazione lombarda di Gentile, grazie al loro rapporto con i Visconti, ma è altrettanto evidente, almeno giudicando dalle testimonianze rimaste, che gli stessi durante il loro dominio non costruirono una corte paragonabile, ad esempio, a quella dei Trinci di Foligno.

 

Senza qui voler sminuire la statura culturale dei Chiavelli, va comunque sottolineato in loro favore che, in questi anni dominati dal gusto fiorito la città potè vantare almeno un'opera di alcuni degli esponenti principali del Gotico Internazionale umbro-marchigiano, ovvero, Lorenzo Salimbeni, Ottaviano Nelli e Giovanni di Corraduccio, ma accanto a questi illustri forestieri, non mancò la continuità nelle botteghe locali, come quella di Franceschino di Cecco, al quale, crediamo, va restituita la Madonna dell'Umiltà, firmata nel 1394 da FRANC ... US DE FABRIANI (Gallarate, coll. Carminati), sempre assegnata al quasi omonimo Francescuccio di Cecco Ghissi (Donnini 1995), sebbene in evidente contrasto stilistico con le opere attribuite a quest'ultimo.

 

Fabriano va quindi inserita a pieno diritto tra i punti cardinali del Gotico Internazionale umbro-marchigiano, insieme a Gubbio, Foligno, Sanseverino e Urbino, meta obbligata per la formazione e l'aggiornamento dei maestri indigeni, intorno ai dettami del 'linguaggio cortese' diffuso dalle opere di Gentile presenti nella terra natia.

 

Ed emblematico, in quest'ottica, è il caso della Maestà e santi dipinta dal Nelli in un'edicola della Chiesa di Santa Maria del Piangato a Fabriano, opera che va ricordata tra i primi numeri del catalogo dell'eugubino e che testimonia l'attenzione riservata dal giovane Ottaviano, al maestoso polittico di Valleremita, dipinto da Gentile intorno al 1405 circa per il vicino convento osservante di Santa Maria di Valdisasso. Un affresco del Nelli costituisce poi una testimonianza intrigante per avviare il discorso, appena accennato, relativo alla committenza, considerato che la sua realizzazione fu richiesta espressamente da un importante mercante di carta, Niccolò di Filippo di Ciuccio, che dal 1400 reggeva il giuspatronato della chiesa fabrianese.

 

 

L'arme dei Chiavelli

Si presenta, davanti a noi, una strada ancora ignorata dalla ricerca, sicuramente più ostica ed ingrata delle altre possibili, anche se, di fronte al nuovo, la speranza non è spesso vana. Infatti, bisogna pur sempre considerare che proprio i grandi mercanti di carta possedevano i grandi patrimoni finanziari, mentre i Signori erano tradizionalmente legati alle rendite terriere ed anche se i Chiavelli gestivano delle modeste manifatture di carta, non potevano certo competere con i guadagni raccolti dai primi lungo rotte commerciali che da Fabriano giungevano sino in Francia, come verificabile chiaramente sui rendiconti.

 

E sulla base di questa riflessione verrebbe da chiedersi se il committente inginocchiato ai piedi della Vergine, nella stupenda Madonna di Berlino (Staatliche Museen) dipinta da Gentile per la chiesa di fabrianese di San Niccolò o più plausibilmente di Santa Caterina , non possa essere individuato proprio in un mercante di carta e vari elementi di carattere documentario potrebbero permetterci, crediamo, di ipotizzare l'individuazione di questa figura in colui che a Fabriano resse il monopolio di tale mercatura a partire dall'ottavo decennio del Trecento, nonché il più ricco cittadino fabrianese dell'epoca ovvero, Ambrogio di Bonaventura.

Tornando comunque alle vicende civili della comunità fabrianese, giungiamo alla data fatidica del 26 maggio del 1435, quando l'eccidio della famiglia Chiavelli aprì l'ultima stagione del medioevo fabrianese, indubbiamente la più travagliata ed infelice. Il passaggio della città, per un decennio, al governo di Francesco Sforza, contribuì ad aggravare l'instabilità politica, ma soprattutto il declino sociale ed economico, causato anche dall'inevitabile diffusione in tutta Europa di nuove manifatture di carta concorrenziali con Fabriano. Emblematica in tal senso è la disposizione dello Statuto del 1437, che vietava ai cartai di collocare le loro manifatture oltre poche miglia dalla cinta muraria, per evitare la diffusione dei segreti di tale arte.

 

Se quindi la signoria aveva accompagnato uno dei momenti di maggior benessere cittadino, come accadde anche in altre città, questa forma di governo si rivelò ormai troppo antiquata, rispetto alla nuova esigenza di un riassetto territoriale orientato alla formazione di più ampi agglomerati statali. Anche le manifestazioni artistiche, come intuibile, sembrano eclissarsi in questi anni e per quasi un ventennio non si registra sui documenti la produzione di dipinti.

 

Solo il soggiorno di Niccolò V che per alcuni mesi, tra il 1449 e il 1450, trovò rifugio a Fabriano dalla peste scoppiata a Roma, poté garantire nuova linfa alla città. Illuminanti per comprendere il clima di degrado vissuto dalla città in questi anni, sono le parole di Giorgio Vasari che nella Vita di Bernardo Rossellino, chiamato dal Papa suddetto ad edificare il loggiato di San Francesco, ricorda lo stato di abbandono della chiesa in cui, ricordiamo, giusto trent'anni prima aveva trovato spazio anche il bellissimo stendardo di Gentile (ora diviso fra il Getty Museum di Malibù e la coll. Magnani Rocca di Traversetolo).

 

Significativa, per testimoniare questo momento di 'rinascita', è la consegna, nel 1451, da parte di Antonio da Fabriano, appena rientrato dal soggiorno genovese, della tavola raffigurante S. Girolamo nello studio (Baltimora, Walters Art Gallery). Il dipinto, che costituisce la prova più mirabile offerta dal pittore marchigiano, è una superba riflessione sui valori prospettici dell'arte rinascimentale, arricchita dal gusto descrittivo dei maestri fiamminghi, che Antonio aveva potuto ammirare nel suo soggiorno ligure, ma anche con un occhio più che attento verso quanto veniva espresso nella vicina corte dei Montefeltro dalla rigogliosa linfa espressiva dell'ormai celebre Fra' Carnevale.

 

Non sembra poi un'informazione superflua ricordare come la tavola suddetta, della quale fino a questo momento si conosceva solamente la provenienza dalla collezione fabrianese dei Fornari, vada associata con elementi di certezza quasi assoluta, al convento delle terziarie francescane titolato a San Girolamo, struttura che, unica nella città, proprio nel 1449 aveva goduto di un particolare beneficio durante il soggiorno del pontefice (Sassi 1961), ed i cui denari vennero con molta probabilità utilizzati anche per commissionare l'opera in questione. La figura di Antonio testimonia ulteriormente una caratteristica peculiare nello sviluppo delle arti figurative a Fabriano nel Quattrocento ovvero, la presenza di un dialogo stilistico in parallelo fra tradizione ed innovazione.

 

A differenza del Trecento possiamo verificare, infatti, come all'inizio del secolo successivo, accanto alle novità portate dai maestri itineranti ed in primis, da Gentile, un pittore operoso stabilmente sul territorio, quale fu il Maestro di San Verecondo, mantenne comunque ben salde le radici della formazione personale sui testi trecenteschi, aprendosi solo con moderazione al gusto 'fiorito'. Un fenomeno, questo appena evidenziato, che, intorno alla metà del secolo, vedeva ugualmente affiancata la 'stimolante' pittura di Antonio al tentativo di riproporre o copiare, che dir si voglia, il dettato gentiliano, del quale si fece portavoce il Maestro di Staffolo.

 

Come già evidenziato all'inizio di questo intervento, le testimonianze artistiche ancora presenti sul territorio offrirebbero la possibilità di altre intriganti letture, una fra tutte, quella legata all'individuazione delle molte opere collegabili alle strutture ospedaliere cittadine, od ancora, e richiederebbe spazi di approfondimento ben più ampi, quella relativa al ruolo della superba collezione delle statue lignee dei maestri dei Magi e dei Beati Becchetti nell'ambito delle sacre rappresentazioni, ma forse, è veramente giunto il momento di lasciare al lettore di queste note a margine, l'intrigante emozione insita nella scoperta di quanto non solo la Pinacoteca, ma ogni luogo di Fabriano, può offrire al visitatore.

 


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