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La concia delle pelli
a Fabriano

 

 di G.Ballelli, F.Moscè, A.Pesetti

 

 

L'arte di lavorare le pelli degli animali è ampiamente attestata fin dall’antichità. Le testimonianze archeologiche più antiche che descrivono la "concia" della pelle risalgono ad oltre 9000 anni fa.
Per una città medioevale avere la produzione di cuoio e pellami voleva dire ricchezza e prestigio. Di sicuro lo sviluppo di questa lavorazione era legata a fattori ambientali. In quella che è una economia circolare per eccellenza ai lavoratori delle conce occorreva: un territorio ricco di allevamenti, che potesse quindi fornire molta materia prima; acqua, da utilizzare nelle numerose fasi della lavorazione; una metallurgia di ottimo livello per realizzare i vari e particolari utensili utilizzati dai conciatori. Elementi tutti presenti ed abbondanti nella terra di Fabriano.
La lavorazione della concia delle pelli, principalmente di pecora e montone, veniva praticata nella Contrata artis cuncie: spesso nominata nei documenti del XV secolo. Situata lungo il fiume Giano, nel lato opposto rispetto a Piazza del Mercato. Con l’accrescersi del numero degli opifici essa si estese man mano fino alla zona detta delle “birarelle”, attuale Via Le Conce, dove tuttora si possono vedere gli ambienti di recente mirabilmente recuperati.
Negli statuti Fabrianesi dell'anno 1415, ed in quelli riformati del 26 agosto 1436, figura l’arte dei “pillipari”, ovvero dei preparatori di pelli, rammentati pure nel libro settimo delle riformanze dell'anno 1446. Gli stessi Statuti annoverano l’arte delle pergamene (“ars chartae pecudinae”) che fu di grande rilievo. Le pergamene erano utilizzate dai monaci e dagli amanuensi delle numerose e vicine abbazie, per realizzare manoscritti, trascrivere testi e miniare preziosi codici. Non va inoltre dimenticato, come anche i notai e le varie cancellerie, civili e religiose, ne facevano largo uso: fino a tutto il XVI secolo le documentazioni ufficiali, quali lettere, contratti, atti notarili erano rigorosamente redatte proprio su pergamena.
I glossari medievali elencano diversi termini utilizzati per indicare i conciatori, come: byrsarius, caligarius, coriarius, pellifex, pergaminarius, sellarius, stratarius, sutor. Sono tutti nomi legati alle molteplici specializzazioni che derivano dalla lavorazione della pelle. A Fabriano, oltre ai conciatori e ai produttori di pergamene, a lavorare le pelli erano i calzolai, i quali erano riuniti sotto una potente corporazione ed avevano una fiorente attività. L'Ars Calcolariorum era tra le più ricche e rappresentative della città, tanto da possedere un proprio Hospitale, attestato fin dal 1316 nel portico della piazza del Mercato dove è ancora visibile lo stemma della corporazione. Vi erano inoltre i sellai (o bastari): produttori di selle per cavalli e animali da soma. Dalle conce fabrianesi si ricavava infatti un ottimo cuoio per fabbricare scarpe, selle, finimenti. Le botteghe dei calzolai si trovavano nella “via di S. Giovanni” (parte “alta” di corso della Repubblica) quelle dei bastari e dei sellari nella “strada Brugia” (inizio della salita che conduce alla chiesa di San Benedetto, oggi via Mamiani).
Utilizzata nella concia delle pelli era principalmente la pianta dello scotano (rhus cotinus), di cui le montagne fabrianesi sono ricche. Due atti del 1257 e del 1260 provenienti proprio dall’abbazia di san Vittore delle Chiuse, attestano come l’abate Morico riscuotesse, per l’affitto di alcune terre "scotanarie" date “a laborizio”, una quota parte del canone a scotano: secco o battuto.
La pianta dello scotano, che in autunno colora di rosso i versanti montani dell’Alta Valle dell’Esino, è ricca di tannini. Nell’antichità ci si accorse, forse per puro caso, che le pelli esposte al fumo o immerse in acqua con materia vegetale ricca di tannini, duravano di più e non subivano il processo di putrefazione tipico della pelle fresca. La concia con lo scotano rende inoltre il cuoio e le pelli particolarmente morbide. Nel libro n.17 delle Riformanze si legge che, nel 1461, la comunità di Fabriano pone una “gabella” sul commercio dello scotano venduto ai conciatori e che, nel 1537, la tassa veniva raddoppiata. Questo a riprova del grande commercio ed utilizzo di questo prodotto naturale.
L’industria della concia delle pelli fu per la città importante tanto quanto lo furono quella della carta e della lana, contribuendo insieme a queste due, e a quella della lavorazione del ferro, a rendere famoso il nome di Fabriano in Italia e in Europa. Tanto erano famose le concerie di Fabriano, che nel Triveneto le pelli di montone conciate a scotano dalle botteghe fabrianesi, venivano chiamate "Fabriane".
A partire dal Rinascimento si era in particolare intensificato l’utilizzo del cuoio decorato (chiamato “corame” dal latino corium), che veniva lavorato e stampato a motivi decorativi ed era usato prevalentemente sotto forma di pannelli destinati all'arredamento, al rivestimento di libri, seggiole, cofani, astucci e oggetti vari. Quello prodotto dalle conce di Fabriano era particolarmente richiesto e veniva esportato a Roma e a Venezia. Giovanni Andrea Gilio nel suo libro "Due dialogi" del 1564, scrive: "Le carte pecore quante ne vanno a Roma e a Venezia si sa, e, quanto ai corami e specialmente da far panni d'oro per finimenti di camere, lo sanno i maestri di quest'arte di Roma, che dicono non trovare i migliori".


Giovanni Andrea Gilio - Due Dialogi - pag.140 (Archivio Ramelli Fabriano)

Il cuoio veniva allora utilizzato anche per tappezzare le pareti: era infatti fiorita una nuova tecnica consistente nella realizzazione di pannelli di cuoio impresso e dipinto. La superficie in pelle veniva decorata da una foglia d'oro o d’argento, arricchita con rilievi impressi da punzoni e dipinta ad olio. In un libro di entrata ed esito del Comune di San Severino, si legge che: nell’anno 1593 adì 5 aprile, "Mario Moneca da Fabriano, coramaro” riceveva 33 scudi “per conto di corami d'oro e d'argento ordinati per la stanza dell'udienza di Palazzo”.
Tali produzioni e commerci continuarono nei secoli successivi: nel XVII secolo si ha memoria dell’esistenza di 18 concerie e, ancora, nel 1733, il Canonico Graziosi ci tramanda come al suo tempo: “L'arte de Corami, o de Conciapelli, è assai ricca, poiché tutti li principali (componenti) di essa potevansi chiamare doviziosi (=facoltosi), e ciò viene dalla bella e buona concia, che danno alle pelli da durarsi, che pareggiano le Spagnuole, attendono ancora a conciare ogni genere di pelli, e a formare carte pecorine, e tante ne fanno, che più non ne smaltiscono”.
Nel corso dell’800 le produzioni assunsero una connotazione industriale: le concerie si ridussero in numero di 7 incrementando però allo stesso tempo la produzione, i capitali e i lavoratori. Questi ultimi raggiunsero un numero complessivo di 87. Nel 1873 a produrre erano le ditte: Mercurelli, Fornari, Martelli, Bartocci, Ciappi, Pranzetti e Cofani. Producevano varie tipologie di corami: manzi a sevo, vacchette, vitelli, bazzane, finimenti, guazze, pellette e suole e traevano ricavi anche dalla vendita dei residui di lavorazione quali lana, pelo, carniccio, o limbellucci (= ritagli di pergamena utilizzati per la produzione di colla). I prodotti venivano spediti in tutta Italia: Firenze, Milano, Napoli, Roma, Torino, Trieste… Le materie prime arrivavano anche dall’Estero: le pelli delle pecore e montoni da Marche e Umbria; dei vitelli da Trieste, Venezia e Vienna; dei buoi parte dall’Italia e parte dalla Russia, dalla Tunisia, dall’America e dalle “presidenze britanniche”. Per le produzioni venivano utilizzati in un anno 2.000 quintali di scotano ed altrettanti di quercia, tutte provenienti dalla zona. L’ultima ditta a cessare l’attività fu quella di Antonio Martelli, attiva fino agli inizi del secolo XX.
 
 
IL SISTEMA DEI VALLATI
 
La formidabile opera idraulica fu realizzata per convogliare in città le acque destinate all’utilizzo nelle varie attività produttive che avevano luogo all’interno delle mura. I vallati, oggi interrati, che costituivano tale opera, erano paralleli e sopraelevati rispetto al corso del Giano. Essi furono collegati tra loro, conformati ed organizzati in modo funzionale a partire dalla seconda metà del XIII secolo per volontà di Alberghetto I Chiavelli. L’afflusso delle acque era regolato da chiuse.
L’acqua del fiume veniva in parte incanalata all’altezza delle attuali cartiere Miliani, in località “Madonna della Quercia” e scorreva nei canali artificiali con una pendenza inferiore a quella del fiume. In questo modo entrava in città ad un’altezza maggiore, circa tre - quattro metri più in alto del fiume e alimenta tutti i vari opifici. L’acqua, attraverso vasche a vasi comunicanti era impiegata per le lavorazioni. Finito il ciclo delle varie fasi produttive ritornava nel fiume da un canale posto all’uscita del corso d'acqua in prossimità delle mura cittadine, all’altezza del ponte delle Cannelle o di Sant’Agostino (Via delle Moline). Il sistema dei vallati era diviso in almeno cinque segmenti, che erano l'uno il prolungamento dell'altro. Il primo, disposto più a monte per la captazione delle acque del fiume, è quello che sorge nei pressi della chiusa delle cartiere Miliani e approvvigionava a valle la cartiera Chiavelli. Il secondo tratto, alimentato dal precedente canale, è il vallato “cupo” (= profondo). Entrava in città nei pressi della Porta del Mercato (Via Fontanelle) per terminare il suo percorso nelle vicinanze del ponte dell'Aèra. Le sue acque alimentavano le conce disposte lungo via Fabio Filzi. Il terzo tratto attingeva l'acqua dal vallato Cupo, in corrispondenza di via Cialdini e si divideva in canali che servivano le varie “conce" dal ponte dell'Aera fino al piccolo santuario della Madonna delle Grazie. Secondo le fonti storiche questo canale veniva detto vallato communis forse ad indicare la realizzazione a spese della collettività. Il quarto tratto prendeva l'acqua dalla sezione principale del vallato communis, vale a dire la più sopraelevata, e dopo aver alimentato dei mulini si riversava nel fiume oltre le mura di cinta poste di lato alla via delle Moline. Quest'ultimo tratto cittadino viene chiamato, non a caso, vallato molendinorum. Il quinto ed ultimo vallato alimentava l'antico mulino medioevale dei Chiavelli, oggi noto come mulino di Mazzanotte: captava le acque a circa cento metri dal punto in cui il precedente riconfluiva nell’alveo naturale del fiume.

Il fiume Giano e vallati, particolare dalla mappa di Eligio Strona, 1828 (Archivio Ramelli Fabriano)

Inizialmente le canalizzazioni terminavano nei pressi del Ponte dell’Aèra, dove il getto ritornava nel Giano. A partire dal XV secolo ci fu il prolungamento che ricomprese gli edifici adibiti alla lavorazione delle pelli i quali nel frattempo si andavano costruendo anche a valle.
Tutto questo complesso impianto consentiva sia di disporre di acqua pulita da utilizzare nelle lavorazioni, sia di avere una cospicua fonte di energia rinnovabile. Energia idraulica che era impiegata per azionare le pile a magli multipli delle gualchiere e le macine dei mulini attraverso apposite ruote, posizionate in orizzontale o in verticale. Anche i fabbri, che avevano le loro botteghe nel tratto di fiume che costeggiava piazza del Mercato, utilizzavano la stessa tecnica per azionare i magli, sgravando la manodopera umana e animale da questi pesanti lavori.
 
 
LE CONCE FABRIANESI
 
La pelle è un materiale organico costituito in buona parte da proteine che degradano velocemente. Occorre quindi "lavorare" la pelle per renderla inattaccabile dalla putrefazione e impermeabile modificando la sua struttura proteica. Questo processo si definisce conciatura, o concia (da qui il termine "conce" per gli edifici destinati a questo scopo).
Le conce fabrianesi nel medioevo erano poste perlopiù sulla sponda sinistra del fiume Giano ed erano parte di quel grandioso impianto proto-industriale che, abbinato alle canalizzazioni idrauliche, si sviluppava per circa due chilometri attraversando tutto il centro antico. Esso assunse la sua peculiare “fisionomia” – tra la seconda metà del XIII e gli inizi del XIV secolo - con la realizzazione dell’ingegnoso sistema idraulico dei vallati.
Le conce fabrianesi hanno una tipologia edilizia ben definita, al piano seminterrato si trovano le vasche per tenere a bagno le pelli e i fuochi per fare bollire l’acqua. I pellami, ricavati dalla caccia o dalla macellazione degli animali, subivano un primo parziale trattamento in loco per essere poi trasportate alle conce. Venivano cosparsi di sale, esposti al calore e al fumo dei bracieri per asciugarli e fermare subito principi di putrefazione. Accatastati e legati erano poi trasportati e venduti ai conciatori. Nelle conce i lunghi processi di trattamento iniziavano con la lavorazione in “riviera”, ovvero sulla riva del fiume. Le pelli secche venivano poste in grosse ceste di vimini ed immerse nell'acqua corrente sulle rive del fiume per il "rinverdimento", ossia per reidratarle, farle ritornare alla originale morbidezza ed elasticità, nonchè mondarle delle impurità e dalle parti in eccesso.
La lavorazione umida al piano terreno, ovvero i trattamenti di concia vera e propria, aveva luogo con una serie di "vasche interrate" una vicina all'altra, rese a tenuta stagna da rivestimenti interni spesso in coccio pesto. Le vasche erano interrate per diversi motivi: il primo è quello che una vasca interrata non ha problemi di cedimento per il peso, né sul fondo, né sui lati. Il secondo motivo è che l’acqua vi veniva convogliata per gravità attraverso apposite canalizzazioni poste al di sotto del piano di calpestio. Il terzo motivo era la praticità: le pelli immerse nelle vasche dovevano essere continuamente, rimestate, battute e girate con apposti e grossi strumenti di legno, cosa più agevole se il bordo della vasca è a livello del pavimento (in alcuni casi nelle conce e colorazioni con prodotti vegetali il conciatore entrava nella vasca con i piedi e pestava le pelli per renderle morbide ed elastiche).
Nello specifico il ciclo produttivo prevedeva:

  1. Calcinazione – il bagno in acqua e calce aveva una durata di 10-15 giorni e veniva eseguito per facilitare l’asportazione meccanica delle lane. A questa fase, che poteva essere comune, seguivano due diverse lavorazioni; la realizzazione della pergamena oppure la concia vera e propria del cuoio descritta nelle due fasi successive;
  2. Neutralizzazione – dopo la rimozione delle lane i velli venivano posti per un paio di giorni in un bagno di acidi organici come ad esempio soluzioni di acqua ed escrementi di cane o di uccelli. Questa fase oltre ad annullare gli effetti residui della calcinazione aveva lo scopo di ammorbidire il prodotto;
  3. Bagno di concia vera e propria – con soluzioni di acqua tiepida e sostanze vegetali macinate come foglie di scotano, cortecce di quercia, acacia comune, castagno, galle di quercia. I tannini contenuti in questi elementi reagivano lentamente rendendo il cuoio inattaccabile dai batteri e assicurando durabilità al prodotto.
  4. Colorazione – alla fine del processo di concia il cuoio poteva essere colorato con bagni in pigmenti naturali.


Le lavorazioni differivano in base al prodotto che si voleva ottenere (si conciava praticamente di tutto, pelli di vitello, pecora, capra, maiale, anche la pelle di cane che forniva un cuoio rinomato per realizzare stringhe per le scarpe molto resistenti) del tutto peculiare era la produzione della pergamena che veniva ricavata dalla pelle della pecora appenninica. Animale il quale, caratterizzato da grande rusticità, adatto quindi al nostro territorio, nonché da un manto candido, forniva un’ottima materia prima quale supporto per la scrittura.
Le prime vasche che si incontrano entrando, erano quelle dedicate al "calcinaio". La pelle veniva immersa in acqua e calce spenta per prepararla ad assorbire i prodotti concianti, le colorazioni e nello stesso tempo dissolvere la parte grassa della pelle e per facilitare il processo di depilazione meccanica. Queste operazioni oggi vengono eseguite nei "bottai" grossi contenitori che ruotano come cestelli di una lavatrice, in passato erano i conciatori che ogni giorno rimestavano e controllavano il processo che avveniva nelle vasche della concia. Quando si riteneva maturo il processo la pelle veniva tirata fuori dalla vasca e trattata con appositi strumenti per raschiare da un lato la pelliccia animale e dall'altro la parte di tessuto molle rimasto attaccato alla pelle. Lo "scarto" di questa lavorazione (chiamata "scarnatura" o "carniccio"), veniva lavorato e bollito per farne quella colla animale usata poi per impermeabilizzare pergamene e fogli di carta e renderli adatti alla scrittura.
Diverso era il trattamento in uso per prodotti da pelliccia. Le pelli dopo la reidratazione erano poste a bagno in tini o vasche con soluzioni di sale e allume di rocca per un paio di settimane. Dopo lavaggio e asciugatura all’aria erano ammorbidite con azione meccanica ed eventualmente con l’utilizzo di sostanze grasse o oleose.
Una produzione particolarmente lenta era quella delle suole da scarpe: la pelle bovina subiva una concia “alla fossa” dove le pelli venivano poste una sull’altra, spargendo tra loro strati di varie sostanze tra cui quelle contenenti tannino. Dopo almeno due mesi di concia il cuoio che se ne ricavava era pronto per le successive lavorazioni.
Negli edifici di via le Conce l’acqua arrivava nelle vasche, poste lungo le pareti perimetrali, attraverso delle bocche di alimentazione in pietra calcarea provviste di saracinesca che ne controllava l’afflusso. Vi erano inoltre dei condotti che si trovavano al di sotto e che permettevano la distribuzione dell’acqua in ogni singola vasca in modo indipendente. Sempre lungo le pareti vi erano i bollitoi dei quali purtroppo non si ha più traccia. Un sistema di canalizzazione permetteva inoltre il collettamento delle acque reflue che venivano convogliate nel fiume.
Una volta raggiunta la voluta morbidezza, elasticità e colore si passavano per l’asciugatura al piano sottotetto. Al terzo livello gli ambienti più caratteristici, i grandi vani per asciugare il prodotto, con larghe aperture, protette dai graticci di legno che consentivano una continua ventilazione. Nel caso della pergamena la pelle viene messa in appositi telai di legno e tramite piccoli sassi alle estremità viene legata e tesa al massimo. Al primo piano dell’edificio, oltre agli uffici preposti alle registrazioni e contrattazioni, si trovavano i locali per le rifiniture e l’ingrassaggio delle pergamene, e per confezionare le merci.
La pergamena era un prodotto di grande qualità e di altissimo costo. Oltre alle comuni lavorazioni, per ottenere la parte interna simile a quella esterna, detta “fiore”, la pelle veniva levigata con pietra pomice e/o polvere di gesso. Al fine di raggiungere un assorbimento degli inchiostri omogeneo, entrambe le superfici erano trattate con colla di carniccio. Come ipotizza Mario Cini, esperto “percamenarius”, è plausibile che una delle grandi innovazioni dei fabrianesi nella lavorazione della carta, la collatura con colla animale, non sia casuale. Niente di più probabile infatti che i cartai abbiano appreso la tecnica che ha rivoluzionato l’uso della carta proprio apprendendola dai fabbricanti di “carta pecora”



tratto da"Zona Conce - rigenerare, progettare, riabitare" edito da Fondazione Carifac Fabriano - luglio 2021
un particolare ringraziamento a Mario Cini e Barbara Zenobi


 
Bibliografia:
 
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miniatura 13th secolo monaco e conciatore

(Ms. 4, 2°) Kongelike Bibliotek, Copenhagen

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

scotano (“Rhus Cotinus”)

utilizzato nella concia delle pelli

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Vasche per la lavorazione delle pelli

in Via le Conce (foto Barbara Zenobi)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Pecora Appenninica

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Stenditoi per l'asciugatura

in via le Conce

 


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